Non sono un grande esperto di ornitologia.
Non saprei dirvi, dunque, a quale specie appartenesse quel corpicino arruffato trovato stecchito zampette all'aria sul lastrico solare dietro casa. Probabilmente doveva trattarsi di un comunissimo passero.
Il primo consiglio ricevuto, pragmatico, è stato: «Non stare a sporcarti le scarpe: prendilo e buttalo giù nell'orto!» Ottima idea, peccato che io non brilli per concretezza. E comunque non riesco a considerare alla stregua di spazzatura quello che fino a qualche ora prima era un essere vivente come me.
Così, senza fare commenti o obiezioni (peraltro inutili) e dopo essermi cambiato le scarpe, ho caricato la piccola salma su una di quelle vecchie palette che un tempo si utilizzavano per gettare il carbone nella stufa e sono sceso nell'orto.
Qui ho trovato un ospite inatteso: un gatto tutto nero che stava banchettando con gli avanzi di cucina che la mia "nobilgatta" disdegna. Questo nel vedermi, invece di fuggire a zampe levate come avviene di solito, ha raggiunto con due salti l'angolo dell'orto più lontano, si è acquattato dietro un vaso e da quel riparo ha iniziato a scrutare le mie mosse pronto a un'eventuale fuga definitiva.
Ma io ho continuato come se nulla fosse: ho preso la zappa e ho scavato un buco di una ventina di centimetri per essere sicuro che nessuno, attirato da qualche odore, si metta a scavare. Ho deposto il corpicino, ricoperto e compattato. Mentre compievo meccanicamente queste operazioni pensavo ai processi di disfacimento a cui sarebbe stato sottoposto quell'uccellino nel ventre oscuro della terra. La vita non è tolta, ma trasformata. Continuamente, fino alla fine del Tempo. Mentre ripulivo gli attrezzi dal fango, ha cominciato a piovigginare. Una pioggerellina appena appena percettibile e per nulla fastidiosa.
Rientrando ho rivisto la scena: un becchino improvvisato che seppellisce nell'orto un ignoto pennuto sotto lo sguardo occulto di un gatto nero e di un cielo chiuso. Materiale prezioso per il mio nido.
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